IdT – Les idées du théâtre


 

Dédicace

Tomiri

Ingegneri, Angelo

Éditeur scientifique : Bucchi, Gabriele

Description

Auteur du paratexteIngegneri, Angelo

Auteur de la pièceIngegneri, Angelo

Titre de la pièceTomiri

Titre du paratexteAl molto illustre et reverendissimo monsignore, Girolamo Fosco

Genre du texteDédicace

Genre de la pièceTragédie

Date1607

LangueItalien

ÉditionNapoli, Giovan Giacomo Carlino e Costantino Vitale, in-4°

Éditeur scientifiqueBucchi, Gabriele

Nombre de pages10

Adresse sourcehttp://www.opal.unito.it/psixsite/Teatro%20italiano%20del%20XVI%20e%20XVII%20secolo/Elenco%20opere/image493.pdf

Fichier TEIhttp://www.idt.paris-sorbonne.fr/tei/Ingegneri-Tomiri-Dedicace.xml

Fichier HTMLhttp://www.idt.paris-sorbonne.fr/html/Ingegneri-Tomiri-Dedicace.html

Fichier ODThttp://www.idt.paris-sorbonne.fr/odt/Ingegneri-Tomiri-Dedicace.odt

Mise à jour2014-10-21

Mots-clés

Mots-clés français

GenreTragédie ; comédie moderne

SourcesHérodote, Histoires, I, 205-214

SujetHistorique

LieuDifférent du lieu historique ; vraisemblable

ActionVraisemblable

Personnage(s)Moyen, conformément à Aristote ; apparition d’un personnage mort (« ombre »)

ReprésentationNe pas représenter d’actions sanglantes sur scène

FinalitéMorale ; catharsis

ExpressionVariété des langues

Mots-clés italiens

GenereTragedia ; commedia moderna

FontiErodoto, Storie, I, 205-214

ArgomentoStorico

LuogoDifferente dal luogo storico ; verosimile

AzioneVerosimile

Personaggio(i)Mezzano come vuole Aristotele ; apparizione di un personaggio morto (« ombra »).

RappresentazioneNon mostrare eventi cruenti sulla scena

FinalitàMorale ; catarsi

EspressioneVarietà della lingua

Mots-clés espagnols

GéneroTragedia ; comedia moderna

FuentesHeródoto, Historias, I, 205-214

TemaHistórico

LugarDiferente del lugar histórico : verosímil

AcciónVerosímil

Personaje(s)Mediano, siguiendo a Aristóteles ; Aparición de un personaje muerto (« sombra »)

RepresentaciónNo representar acciones sangrientas en el escenario

FinalidadMoral ; catarsis

ExpresiónVariedad de las lenguas

Présentation

Présentation en français

Dans la dédicace de son unique tragédie, Angelo Ingegneri (v. 1550 - v. 1612) reprend et développe quelques questions déjà abordées dans son ouvrage théorique paru quelques années auparavant, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche (De la poésie représentative et de la manière de représenter les fables scéniques, 1598). Adoptant une perspective historique, il part d’un constat portant sur l’ensemble de la production théâtrale contemporaine. À la différence de l’épopée, la tragédie et la comédie modernes traversent une crise profonde, dont il essaie d’expliquer les causes. La tragédie − dit-il − n’attire plus l’intérêt du public à cause des sujets peu attrayants qu’elle propose (peu appréciés du public de la cour) et des frais importants qu’elle exige pour la représentation. En outre, elle manque encore en Italie d’une réflexion théorique adaptée, ce qui explique le découragement des auteurs qui s’y sont récemment essayés. La comédie, de son côté, s’est abaissée à une telle grossièreté qu’elle n’a plus rien à voir avec ses modèles anciens ni avec les plus prestigieux des modèles modernes (l’Arioste). Malgré l’abondance de tragédies en italien, ce genre manque encore d’une œuvre moderne exemplaire, comparable à ce que le poème du Tasse a été pour le genre épique1. Le concept aristotélicien de « vraisemblable poétique » est ensuite mobilisé pour justifier les quelques transformations apportées par l’auteur à la matière historique (les Histoires d’Hérodote) qui inspire Tomiri. Ingegneri s’arrête en particulier sur l’apparition de l’esprit d’Astiage, comme un exemple de ces ombres dont il avait critiqué l’abus dans son traité quelques années plus tôt. Au début de Tomiri (I, 1), Ingegneri fait en effet apparaître le roi des Mèdes, Astiage, pour annoncer la défaite et la mort de son petit-fils, Cyrus II, coupable de l’avoir détrôné et emprisonné, favorisant ainsi la domination perse sur les Mèdes (Hérodote, Histoires, I, 128-130). La morale étant la visée ultime du théâtre, la tragédie est, d’après Ingegneri, le genre à privilégier afin d’apprendre au public à se détacher des valeurs mondaines ainsi qu’à modérer ses passions (voir la morale résumée par l’ombre d’Astiage : « perch’altri impari / da timor punto e da pietà commosso / a tener l’ira e la superbia a freno », (« Pour que d’autres apprennent, / saisis par la crainte et émus par la pitié/ à mettre un frein à la colère et à la superbe », p. 3). Il faut souligner à ce propos l’interprétation de la catharsis aristotélicienne (Poétique, chap. 6, 49 b 25), car Ingegneri refuse de l’interpréter comme une purgation « homéopathique » de la terreur et de la pitié. Si tel était le but de la tragédie, il serait plus facilement atteint par la représentation sur scène de punitions exemplaires et cruelles qu’à travers la parole. De plus, une libération totale de ces sentiments dans l’âme des spectateurs les prédisposerait dangereusement à éprouver d’autres passions bien plus nocives. Aussi, d’après Ingegneri (qui reprend ici le commentaire de Maggi à ce passage de la Poétique2), le spectateur de la tragédie ne se « purge » pas de la terreur et de la pitié, mais, à travers ces passions, il se libère d’autres vices pour revenir à une perfection morale dont il s’était temporairement écarté.

Présentation en italien

Nella dedicatoria dell’unica sua tragedia, Angelo Ingegneri (1550 circa-1612 circa) riprende e approfondisce alcune questioni già affrontate nel suo più importante scritto teorico apparso qualche anno prima, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche (1598). Ponendosi in prospettiva storica, egli parte dalla constatazione di una profonda crisi (sconosciuta all’epica) dei due generi teatrali della tragedia e commedia : la prima divenuta poco frequentata a causa del dispendio degli allestimenti, della scarsa attrattiva dei soggetti prescelti (poco grati al pubblico cortigiano) nonché della mancanza di una trattazione teorica adeguata ; la seconda ridotta a un livello di comicità scurrile lontana tanto dai modelli classici quanto dai più illustri dei moderni (Ariosto). Nonostante l’abbondanza di tragedie moderne, l’autore della Tomiri ritiene che il campo sia ancora aperto a produrre opere esemplari in questo genere, alla pari di quanto fatto da Tasso nell’epica3. Il concetto aristotelico di « verosimile poetico » è addotto in séguito a giustificazione delle aggiunte dell’autore alla materia storica (attinta a Erodoto) da cui trae l’argomento la Tomiri. In particolare Ingegneri si sofferma sull’apparizione dello spirito di Astiage come esempio di quelle « ombre » il cui abuso era stato censurato nel trattato di qualche anno prima. All’inizio della Tomiri (I, 1) Ingegneri fa infatti apparire il re dei Medi Astiage a profetizzare la sconfitta e morte del nipote Ciro II, che lo aveva vinto in battaglia dando inizio così alla dominazione persiana sui Medi (Erodoto, Storie, I, 128-130). La moralità essendo il fine ultimo del teatro, la tragedia è per Ingegneri il genere da privilegiare, allo scopo di ammaestrare il pubblico nel distacco dai valori terreni e nella moderazione delle passioni (finalità così riassunta all’inizio dall’ombra di Astiage : « perch’altri impari / da timor punto e da pietà commosso / a tener l’ira e la superbia a freno » p.3). Notevole, a questo proposito, l’interpretazione data della nozione di catarsi aristotelica (Poetica, cap. 6, 49b, 25) che rifiuta di interpretare la catarsi come un fenomeno di purificazione « omeopatica » dal terrore e dalla pietà. Se questo fosse il fine della tragedia, esso sarebbe più efficacemente raggiunto attraverso la rappresentazione sulla scena di punizioni sanguinose ed esemplari (« morti palesi » e « atrocità ») che non tramite la parola. Inoltre, la liberazione totale da pietà e terrore lascerebbe nell’animo del pubblico una pericolosa disposizione ad altre passioni ben più nocive. Secondo Ingegneri, che fa eco qui all’interpretazione di Vincenzo Maggi del passo aristotelico4, lo spettatore della tragedia non si « purifica » da terrore e pietà, bensì attraverso queste passioni si libera da altri vizi, ritornando a quella « perfezione » morale da cui si è temporaneamente sviato.

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Al molto illustre e reverendissimo monsignore Girolamo Fosco5

Molto illustre e reverendissimo signore,

{a2r} io che già troppo audacemente contaminai la riputazione e l’orecchie di V.S. Reverendissima con la bassezza di quel mio debole discorso contra l’alchimia6, così com’egli fu da me scritto a correzione di ciò che dianzi m’era uscito dalla penna in favore d’arte sì vana, così ora, ad emenda della mia prima presunzione, ardisco con più piano giudicio di dedicarle questa tragedia {a2v} ; poema, per sua natura, tanto grave che non dubitò il dottissimo Trissino d’appresentarlo al gran Leone Decimo7, pontefice di lettere belle e d’ogni nobile scienza a maraviglia intendente. E certo chi ben considera non ha se non sommamente a prezzare il poema tragico, conciosiacosaché tutte l’altre spezie di poesia, per le tenerezze ch’elle o principalmente ovvero accessoriamente sogliono talora ammettere, sono in qualche parte atte a corromper i costumi ; ove la tragedia, sì come quella che dal principio alla fine si conserva in un uno stesso tenore di gravità e di moralità, e sempre con veraci sentenze e all’ultimo con notabile esempio di rivolgimento di fortuna ci porge utilissimo ammaestramento di non dever porre nell’umane felicità soverchia speranza, non può in veruna maniera altrui essere di nocumento. Ma cotal sorte di poesia si trova a’ nostri giorni presso che disusata, o sia perché la spesa e la malinconia dello spettacolo8 ne rende poco frequente la rappresentazione, o sia piuttosto perché ’l mancamento di buoni soggetti tragici, e la difficoltà dei precetti dati in questa materia dai maestri dell’arte ne sbigottisce i compositori9. Il che per avventura non avverrebbe, se, com’è comun parere, la poesia fosse veramente furor divino, con cui la sola inspirazione avessero Arato10, Esiodo e altri e ’l più di tutti ammirabile e stupendo Omero, cantato cose di tanta dottrina e {a3r} di così alta speculazione. Laonde tengo io una tal mia particolare opinione, assai differente da tutti gli altri, cioè che non avendo ’l furore, il quale è un irragionevole moto dell’anima, e quasi ferino, punto a che fare con la divinità, di cui poscia non ho saputo già mai conoscere in me stesso un minimo raggio (come che pure io non neghi ala Natura qualche scintilla di mia inclinazione al versificare) vo pensando ch’i poeti antichi s’ingegnassero di far così credere al mondo per accrescer onore e stima alla profession loro. E che in quei primi secoli, ove si cominciò a dar vigore al parlar umano con l’arte di persuadere, molto più naturalmente, secondo me, che non è il verseggiare, alcuni più fioriti intellettuali ritrovassero ’l numero11 e l’armonia del verso, meglio accomodata agli orecchi e massimamente dalle persone dilicate e pieghevoli come sono i giovani e le donne, forse per allettare questi con maggior soavità all’osservanza dei modi convenevoli alla vita virtuosa e civile e quelle con pari agevolezza disporre alle voglie loro. Quinci ebbe verisimilmente origine innanzi di tutte l’altre la lirica poesia, la quale in breve tessitura rinchiude un concetto morale, amoroso, ovver d’altra sorte e così adempie, senza molta occupazione, l’intenzion sua. Crebbe poi, con l’ordine universale di tutte le cose, anco questo dilettevolissimo studio in guisa ch’egli pervenne ad uso più grave, onde ne cercarono gl’intelligenti di trar{a3v}re tutti quei più giovevoli insegnamenti, che sono richiesti al governo delle repubbliche, all’acquisto ed alla difesa degli stati ed alla cura ultimamente famigliare e delle case private. E conoscend’essi di quanta forza fosse l’esempio per accender gli animi alla vera gloria col mezzo di bene e virtuosamente operare, stabilirono alla poesia una forma, quasi anima sua propria, e particolare che fu l’imitazione. Con questa costituirono primieraremente le tragedie, nelle quali le azione dei personaggi grandi, travagliati da importantissimi perigli e ’l più delle volte dal colmo delle felicità precipitati, insegnassero a non far fondamento nelle terrene prosperità ed a moderare le troppo violenti affezioni. Formarono appresso i poemi epici per mostrare a quale altezza si possa l’uomo elevare col suo valore e con l’eroica magnanimità. Ed ultimamente ci diedero le commedie ad istruzione del viver domestico, dimostrandoci con la sconvenevolezza dei costumi che apportan danno ed inducon riso, com’altri abbia a regger sé stesso e la sua famiglia. Giovò per molto spazio di tempo quest’arte, sì che n’ebbero i professori onori e premi memorabili lungamente. Ma poscia ella ne venne mancando, forse perché gli umani intelletti, più sempre invaghiti dell’imparare, non ebbero altro bisogno di condimenti, avidamente abbracciando la semplicità della dottrina, manifestata da sode ragioni e non adorna di colori {a4r} artificiosi. Poté anco essere per avventura che la debolezza delle mercedi, che se ne sono ottenute di mano in mano, ne abbia raffreddata l’applicazione delle genti12. Nel particolare delle comedie è ben chiarissima cosa che l’abuso loro, ridotto al dì d’oggi solamente ad un vizioso e sconcio ridicolo, senza punto d’onesto ed utile avvertimento, sì come n’ha alterato ’l gusto, così le ha tratte fuori della purità della loro essenza, e levatane l’antica profittevole dilettazione. Il perché, dopo quelle dell’Ariosto, che pure conservano non picciola parte della prisca dignità13, non ho veduto fra le moderne la più gentile del Diogene accusato del Zoppio lettore in Bologna di filosofia14. Gli eroici si sono sempre mantenuti in gran pregio, e se non fosse che la nostra sacrosanta religione non comporta di leggero15 fizioni e profane maraviglie, se ne leggerebbe forse più d’uno degno del nome, ma per molti basti l’unica Gerusalemme del famosissimo Tasso, per non mettere in paragone il suo Mondo creato, ch’è veramente e proprissimamente epico, trattando con tanta sublimità e con tale leggiadria della maggiore azione che già mai fosse fatta16. Ma tornando alle tragedie, benché diverse se ne veggano ed anco d’autori di qualche grido, non pare però ch’alcuno si possa dar vanto d’aver tocco la meta in così glorioso arringo17. Ed in tale proposito tengo appresso di me una bella e curiosa scrittura d’un vivace ed elevato ingegno che dal linguag{a4v}gio si conosce esser fiorentino, il quale introducendo una graziosissima invenzione sopra ad una festa la Tragedia, l’Epopeia, la Commedia, la lirica Poesia, la Pastorale e la Satira fa quest’ultima levare a danzare dall’Ariosto, la seconda dal Tasso, la terza da Dante, la quarta dal Petrarca e la quinta dal Boccaccio, lasciando la prima a sedere, sì come quella che non ha ancor ritrovato nella nostra lingua chi meritevolmente l’abbia a pigliar per mano18. Ora ben troppa temerità e sfacciataggine fora19 la mia, s’io m’arrogassi d’entrar in ballo20, presumendo, che la dama sì nobile e tanto principale21 avesse a toccar a me : non per tanto non debbo restar anch’io di correr la mia carriera, portato massimamente dall’altezza del soggetto e favorito dalla verità dell’istoria, e rincorato dalla molta opportunità dei pochissimi verisimili, ch’io v’ho aggiunto, che nel resto non è ch’io non conosca la povertà del mio stile e ’l difetto in lui d’ogni riguardevole ornamento. Ma circa alla favola, da Erodoto, ond’io ho tolto ’l caso, tengo non pur la richiesta delle nozze di Tomiri, fattale da Ciro, e’l rifiuto di lei, per sospetto della sua avidità di regnare, mascherata sotto al desiderio di matrimonio ; la prigionia di Spargapise per cagion dello stratagemma ricordato da Creso, e la morte del giovane vinto dal duolo dell’error suo, e finalmente la sconfitta di Ciro per via dell’altro stratagemma, con tanta strage di lui e dell’esercito suo, {b1r} che non ne campò un solo il quale potesse recarne l’avviso in Persia, ma ’l sogno del medesimo Ciro e la sua stessa interpretazione che Dario in breve gli avesse ad esser successore22. Di maniera che le aggiunte poetiche vengono a ristringersi nell’ombra, nella città di Sacalbina e nelle lettere scritte da Ciro. La prima, introdotta contra ’l mio proprio gusto, ma per avermi ella somministrato alcuni novi, e forse non del tutto inetti pensieri in materia d’ombre23, oltra ch’ella non torna per avventura male a proposito apparsa nel sogno a Ciro in compagnia d’Astiage24. La seconda, trovata per costituire alla scena luoco opportuno, e questa sembra necessaria, non che verisimile, dicendo l’istorico che Ciro passò ’l fiume Arasse di tre giornate25, nel quale spazio ritrovandosi la detta terra non è se non da tener per fermo ch’un buon guerriero, com’egli era, non se l’avesse lasciata in altrui potere dietro alle spalle. La terza ed ultima non è punto più dell’altre lontana dalla verisimiglianza, molto del credibile avendo che non si brami per moglie donna non amata e massimamente sì bella, tanto grande e valorosa reina26. Dietro al qual presupposto se ne viene del medesimo passo lo spaccio27 fatto da Ciro e da lui dato ad Istaspe per portarlo in Persia, che, capitando poi nelle mani a Tomiri, la rende doppiamente pentita dell’ira e dell’ostinazion sua. Restariano alcune lieve considerazioni dintorno alla diversità dell’idioma, alla {b1v} brevità del tempo ed altre così fatte minuzie, che tutte vengono autoreggiate28 dal verisimile poetico, non altramente che ’l parlar ad alta voce quando anco si tratta di segretissimi affari e ’l favellare ne gli ordinari, vicendevoli ed improvvisi ragionamente in versi e cose simili, già dall’universal consentimento accettate, parte per natura della poesia, parte per intelligenza del teatro. Non lascerò di soggiungere un altro mio, non so se sia capriccio ovver buon parere, il quale è ch’io non sono d’accordo con coloro che vogliono che sia mente29 d’Aristotele che ’l tragico abbia per fine di purgar gli animi co’l mezzo del terrore e della commiserazione da quest’istessi affetti. Prima perché ciò che sarebbe un pensare di curare ’l freddo col freddo e ’l caldo col caldo e non con i contrari come fanno i medici. Poi perché l’animo, liberato dal timore e dalla compassione, trapassa sovente all’indolenza ed alla crudeltà. Senza che, se tale fosse l’intenzione del poeta tragico, non occorreria ch’egli s’affaticasse per render mezzana la tragica persona, ma così la buona, come la rea servirebbe, anzi la buona moverebbe a maggior pietà e la cattiva inasprirebbe maggiormente, non rimandendo con tutto ciò né l’una né l’altra vuota di forza per destar ambedue gli affetti, imperché ciascuno spettatore ha de li vizii e delle virtù, e quanto al primo sentirebbe in sé stesso orrore dell’afflizione del buon personaggio, così come per l’opposito {b2r} dell’altrui degno castigo grave paura. S’aggiunge per ultimo che un fine di questa sorte assai meglio si conseguirebbe dal poeta con le morti palesi e le atrocità su’l palco, di molta più efficacia essendo gli oggetti della vista che quei dell’udito : e pure così fatti spettacoli sono assolutamente dannati, com’ognun sa. Conchiudo adunque che la tragedia abbia per mira il far l’uomo virtuoso e per mezzo del terribile e del miserabile rimoverlo da quei vizii, ch’or per una, or per un’altra passione, si sogliono insignorire dell’animo suo ; ed in somma altro non pensi che restituirlo alla sua vera ragionevole perfezione. Il che se Dio m’avesse conceduto di poter in ben minima parte conseguire nella Tomiri, nella quale mi son provato d’avvertire con i medesimi mezzi il lettore, e lo spettatore dei danni che possono procedere dalla superbia, dall’ira e dall’ostinazione ed insieme d’alcun’altra incontinenza, mi fornirei30 di compiacere d’averla dedicata a V.S. Reverendissima ; e così crederei anco di aver a pieno medicato ’l male, ch’io feci con la Palinodia dell’Argonautica. Ma essend’io conscio a me medesimo di vantaggio ed altrettanto conoscendo la finezza del giudicio di lei in ogni sorte di studio, il che la rese già tanto cara a quel grandissimo e sapientissimo cardinale di Santa Severina31, ch’è in Cielo, non posso se non dolermi di più non valere. Consolandomi tuttavia, che questo poco ch’io ho detto sia stato e sia puro {b2v} parto dell’ingegno mio, secondato dal solo lume naturale, col cui mezzo ogn’arte ed ogni scienza, ritrovata dall’umano intelletto e stabilita per gli metodi suoi, per li quali l’investigarla è cosa ordinaria, riceve talora meravigliosa vivacità. Perché ritornata in tal maniera e risoluta nei suoi veri principii sparge sempre nova virtù ch’apre alla speculatione ’l sentiero e conduce per dilettevole strada alla verità. Ma com’è ch’io taccia che la presente mia fatica si possa dir opera propria di V.S. Reverendissima sì perché senza ’l prudentissimo applauso di lei, mai non sarei stato oso di condurla a fine, sì anco perché, privo del suo liberal soccorso, non avrei avuto modo di vegghiar32 quelle poche ore che ci ho speso attorno ? Quest’è il punto che m’obbliga a non donarla ad altri che a V.S. Reverendissima che mi scusa dell’ardire e che mi promette da lei perdono di qualunque impertinenza bastasse o per mia colpa o per altrui sinistra33 interpretazione a macchiar la candidezza dell’affetto e dell’intenzion mia. Ed a V.S. Reverendissima bacio umilissimamente la mano. In Roma, l’anno MDCVII ed il giorno della mia festa ch’è la vigilia di quella di V.S. Molto illustre e reverendis[sima]

perpetuo servitore, devotissimo ed obligatissimo

Angelo Ingegneri.