Venut’è homai il mio doglioso fine14,
Caro lettore15, et se potuto havessi
Di me medesma a voglia mia disporre
Stando nascosa, non havrei noiato
5 Co le dolenti mie querele alcuno.
Che quantunque io sapessi ch’i più saggi16
Preposero a ogni sorte di poema
La real gravità de la tragedia17,
Come color che ben vedean che nulla
10 Era nel mondo onde potesse havere
Lo stuolo human modo miglior di vita,
Non dimeno i’ vedea che sì cresciuta
(Mercè del guasto mondo) è la lascivia
Che non pur la Tragedia18 non è in pregio,
15 {NP 60}Ma il suo nome real’è odioso a molti19.
Ma poi c’han vinto il mio voler l’altrui
Voglie et costretta sono uscire in luce
Mal grado mio, s’èn te pietà ti prego
Ch’esser vogli ver me più tosto mite
20 Et benigno censor, ch’aspero et crudo:
Perché tu non aggiunga al mio dolore,
Ch’è dur da sé, col lacerarmi, affanno.
E se forse parrà ch’io non mi scopra
In quell’habito altero in che devrei,
25 Iscusimi la forza de’ martiri
Che tanto ogni desio d’ornarmi m’hanno
Tolto, che spesse volte ho havuto invidia
A le più rozze pastorelle, essendo
Ne l’humile lor’ habito riposo,
30 Ov’è ’l grave et real pieno di cure20.
Né mi dèi men pregiar perch’io sia nata
Da cosa nova et non da historia antica:
Che chi con occhio dritto il ver riguarda,
Vedrà che senza alcun biasimo21 lece
35 Che da nova materia et novi nomi
Nasca nova Tragedia22. Né perch’io
Da gli atti porti23 il prologo diviso
Debbo biasimo24 haver25, però che i tempi
Ne’ quai son nata et la novità mia
40 Et qualche altro rispetto occulto fammi
Meco portarlo: che ben pazzo fora
Colui il qual, per non por cosa in uso
Che non fosse26 in costume appo gli antichi,
{61} Lasciasse quel che ’l loco e ’l tempo chiede,
45 Senza disnor. Et s’io non sono in tutto
Simile a quelle antiche, è ch’io son nata
Testé da padre giovane27 et non posso
Comparir se non giovane28; ma forse
Potrà levare il dispiacer ch’ havrai
50 Del mio grave dolor, la verde etade.
Et che divisa in atti e ’n scene29 io sia,
Non pur non deve essermi ascritto30 a vitio,
Ma mi deve mostrar via più leggiadra31.
Che com’ un’huom fia strano mostro al mondo
55 Che non habbia distinte in sé le membra,
Così anch’io istimo che spiacevol fora
Vedermi in un tutta confusa32. Et bene
Seneca vide et i Romani antichi,
Quanto vedesser torto i Greci in questo33.
60 E ch’io sia grande et grandi habbia le parti,
Fuor de l’ordin non è de la natura34,
Anzi maggior beltà regna in que’ corpi
Che ne la spetia35 lor sono maggiori36.
E s’ad alcun, cui grave sia d’udire
65 Ragioni ch’a pietà possin piegare
Un animo disposto a la vendetta,
Troppo lungo parrà forse Malecche37,
Egli a sua volta lo si accorci, ch’io
Mai perciò non verrò seco a tenzone.
70 Né stran ti paia che le donne ch’io
Ho meco in compagnia sian via più saggie
Che paia altrui che si convenga a donne38.
{NP 61} Ch’oltre il lume, qual’ha de la ragione
Come l’huom la donna, Il gran sapere
75 Che chiude in sé quella sublime et rara
Donna, il nome di cui alto et reale
Con somma riverenza et sommo honore
Oscuramente entro a me chiaro serbo,
Far può palese a ogni giuditio39 intiero
80 Non pur quanto di pregio in sé haver possa
Donna gentil, ma che ’n prudenzia et senno
(Rimossa che ne sia la invidia altrui)
Agguagliar puote ogni saggio huom del mondo40.
Appresso non ti paia stran che i Ciri
85 Meco non habbia e’ i Dari et le Satipne41,
Quantunque i’ mi confessi esser di Persia:
Che da sì fatto biasimo iscusare
Mi può il mio nascimento, a chi ben mira42.
Né dee duro parere, ad huom che sappia
90 Che può desperazione et grave doglia
In cor di donna, che la figlia, senza
Speme alcuna rimasa nel dolore,
Dat’habbia acerba morte al crudo padre.
Et quantunque ne moia il fier tiranno,
95 Nessun di sceleragine43 giamai
M’accuserà che con sano occhio miri
A qual pietade desti i cori humani
Il caso di coloro ond’io son nata44.
E s’havut’ha lo Stagirita duce,
100 Che tanto vide et tanto seppe et scrisse
Et di compor tragedie aperse l’arte,
{62} Nel darsi aperta morte la Reina
Ond’ho il nome io, per per fine al suo male,
Maraviglia non è se da le leggi
105 Del Venusino in ciò partissi et volle
Nel cospetto del popolo col ferro
Darsi con forte man la morte in scena45.
A que’ ch’a giri de le voci intenti
Vanno ansiosamente mendicando
110 Gonfie parole et epitheti gravi
Et d’horror ciechi et sanguinose46 morti,
D’Acheronti, di notti horride et nigre
Empion le carte lor se scrivon pianto,
Et s’allegrezza, altro da lor non s’ode
115 Che fiori, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi47,
Rubin, perle, zaphir, topati et oro48,
Dirai ch’a scielta tal mi fece inetta
La forza del dolor che mi premea;
Et ho voluto haver più tosto duce
120 Con l’ornamento debito natura,
Che con pompose voci una finta arte49.
A’ molti ch’oggi scrivono volgare
E lascian l’uso de’ scrittori eletti,
Fidandosi di sé per esser nati
125 In parte50 ove par lor che sia perfetta
La volgar lingua, ch’è senza alcun pregio
S’a lei non danno honor gli auttori51 antichi
Tu risponder potrai agevolmente,
Se forse contra me parlar vorranno,
130 Perché seguito in parte abbia il gran thosco52
{NP 62} Che per Laura cangiò l’Arno con Sorga53,
Et il buon Certaldese54, eterni et chiari
Lumi de la volgar dolce favella55.
Che tal fu la Romana et tal la Greca
135 Lingua, qual hora è la volgare et ambe
Non dal parlar comun, ma da scrittori
Che ’n esse si scoprirono eccellenti
Hebbero nome et tanto for pregiate,
Quant’era simil l’una et l’altra a quelli
140 Tre, quattro et sei c’havean la scielta fatta
Del meglio tra il parlar del volgo indotto.
E chionque nel dir cercava fama,
Seguia’ que’ scrittor buon, né si fidava
Di sé per esser nato in Grecia o ’n Roma.
145 è vero ben che per essere anchora
Vivo questo volgar grato idioma,
Giudico56 che sia lecito a chiunque
Scrive in tal lingua, usare alcuna voce
(Scielta però da singolar giudicio)
150 Che ne’ predetti toschi57 non si trovi.
Però a quei che ristretta han questa lingua
(Che in tal’opinione58 hoggi son molti)
Solo a le voci de due chiari thoschi,
Se voce è ’n me che non si trovi in essi,
155 Vo’ che risponda teco il divin Bembo,
Bembo divino59 che la volgar lingua
Tolt’ha dal carcer tenebroso et cieco
Regno di Dite, con più lieto plettro
Ch’Orpheo non fe’ la sua bramata moglie;
160 {63} E ’l Trissino gentil che col suo canto
Prima d’ognun dal Thebro et da l’Illisso
Già trasse la tragedia a l’onde d’Arno60;
Et il gran Molza61, il cui honorato nome
Vola con chiaro grido62 in ogni parte;
165 Et il buon Tolomei63 ch’i’ volgar versi
Con novo modo a i numeri latini
Ha già condotto e’ a la Romana forma;
E quel che ’n sino oltre le riggid’Alpi64,
Da Thebbe in Thoscano habito tradusse
170 La pietosa soror di Polinice65:
I’ dico l’Alamani66 che mi vide
Per mio raro destino uscire in Scena67.
Questi felici et pellegrini ingegni,
Co gli altri che seguiti han le lor orme
175 (Anchora che que’ due celebri auttori68
Habbiano in pregio tal qual deono haversi),
Cercando d’aumentar questa favella
Con ferma elettione et ver giuditio,
Han più tosto voluto procacciarsi
180 Con libertà lodevole di voci
Ch’aprano et lor concetti, che ’n prigione
Co ceppi a piedi rimanersi muti.
Lasciando adunque a te tal peso e’ a loro,
Attenderò, sotto il presidio raro
185 Del Signor sotto il cui favor son fuori69,
Ch’altri, da le mie voci forse desto,
In habito più altero et più onorato
Mostri Tragedie et di beltà più rare.
{NP 63} Perché a le virtù loro, a le lor doti,
190 A la mirabil lor rara bellezza
(Pur che non sia diforme al mio dolore)
Cercherò somigliarmi a mio potere.